E' davvero interessante, oltre che toccante, la testimonianza della Dottoressa Costanzo. Mi ha colpito soprattutto, e condivido, quanto detto a proposito delle cosiddette "barriere architettoniche" di cui si parla solo in funzione della disabilità. Nella mia città ci sono dei tratti di strada dove il pedone in quanto tale non è previsto. Per accorgersi di quanto sia ostile il modo di concepire gli spazi, non c'è bisogno (non dovrebbe esserci bisogno) di avere un deficit "conclamato": anche portare un bimbo piccolo in carrozzina, passeggiare con un cane al guinzaglio o con le sporte della spesa pone chiunque in una condizione di difficoltà. Ciò che voglio dire è questo: il deficit è ascrivibile prevalentemente (ed è certo aggravato e reso ancora più odioso se inflitto ad una persona sofferente) ad una mentalità escludente che dà luogo a spazi "astratti" che non sono concepiti per le persone vere, viste in relazione le une con le altre. Ciò è particolarmente evidente se si osservano gli spazi dedicati ai "disabili" che sono distinti (cioè separati) e spesso scomodi per chi è "normale": ad esempio gli scivoli per le carrozzine hanno una pendenza tale da non poter essere percorsi in discesa se si indossano i tacchi alti.. quasi a dire che una bella signora non possa accompagnarsi a un aitante fidanzato in sedia a rotelle. Dove sta scritto? Intorno ai trent'anni ho attraversato un periodo difficile dal punto di vista psicologico, più che altro una crisi di coscienza, come quando Dante scrive "nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita", cogliendo il significato profondo di questi versi. Ebbene, in quel periodo ciò che più di tutto mi turbava era proprio il senso di oppressione dovuto a muri, strettoie, ai dislivelli dei marciapiedi troppo alti che se per caso inciampi ti sfracelli, ai paletti conficcati ai bordi dei marciapiedi per impedire soste selvagge agli automobilisti, ai pali della luce o quelli per la segnaletica messi in mezzo... La vita del pedone è spesso difficile e pericolosa, a maggior ragione se si soffre per un problema di salute. Ho apprezzato tutto il discorso della Dott.ssa Costanzo, ma soprattutto questo: il disconfort dello spazio urbano non dovrebbe essere considerato solo in funzione della cosiddetta "malattia", e anzi credo che lo spazio sia lo malato e tende a sottolineare eventuali difficoltà, inibendo le abilità residue di chi ha un problema di salute, ma fondamentalmente ostacolando il movimento in quanto tale.
E' davvero interessante, oltre che toccante, la testimonianza della Dottoressa Costanzo. Mi ha colpito soprattutto, e condivido, quanto detto a proposito delle cosiddette "barriere architettoniche" di cui si parla solo in funzione della disabilità. Nella mia città ci sono dei tratti di strada dove il pedone in quanto tale non è previsto. Per accorgersi di quanto sia ostile il modo di concepire gli spazi, non c'è bisogno (non dovrebbe esserci bisogno) di avere un deficit "conclamato": anche portare un bimbo piccolo in carrozzina, passeggiare con un cane al guinzaglio o con le sporte della spesa pone chiunque in una condizione di difficoltà. Ciò che voglio dire è questo: il deficit è ascrivibile prevalentemente (ed è certo aggravato e reso ancora più odioso se inflitto ad una persona sofferente) ad una mentalità escludente che dà luogo a spazi "astratti" che non sono concepiti per le persone vere, viste in relazione le une con le altre. Ciò è particolarmente evidente se si osservano gli spazi dedicati ai "disabili" che sono distinti (cioè separati) e spesso scomodi per chi è "normale": ad esempio gli scivoli per le carrozzine hanno una pendenza tale da non poter essere percorsi in discesa se si indossano i tacchi alti.. quasi a dire che una bella signora non possa accompagnarsi a un aitante fidanzato in sedia a rotelle. Dove sta scritto?
Intorno ai trent'anni ho attraversato un periodo difficile dal punto di vista psicologico, più che altro una crisi di coscienza, come quando Dante scrive "nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita", cogliendo il significato profondo di questi versi. Ebbene, in quel periodo ciò che più di tutto mi turbava era proprio il senso di oppressione dovuto a muri, strettoie, ai dislivelli dei marciapiedi troppo alti che se per caso inciampi ti sfracelli, ai paletti conficcati ai bordi dei marciapiedi per impedire soste selvagge agli automobilisti, ai pali della luce o quelli per la segnaletica messi in mezzo... La vita del pedone è spesso difficile e pericolosa, a maggior ragione se si soffre per un problema di salute. Ho apprezzato tutto il discorso della Dott.ssa Costanzo, ma soprattutto questo: il disconfort dello spazio urbano non dovrebbe essere considerato solo in funzione della cosiddetta "malattia", e anzi credo che lo spazio sia lo malato e tende a sottolineare eventuali difficoltà, inibendo le abilità residue di chi ha un problema di salute, ma fondamentalmente ostacolando il movimento in quanto tale.