Vittorio Gassman legge Dante - Commedia - Inferno, Canto XXXII

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  • Опубликовано: 14 мар 2021
  • Vittorio Gassman presenta e legge il trentaduesimo canto dell'Inferno di Dante.
    Si svolge nella prima e nella seconda zona del nono cerchio, nella giaccia di Cocito, ove vengono puniti i traditori dei parenti (Caina) e quelli della patria e del partito (Antenora). È il pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo) o, secondo altri commentatori, del 26 marzo 1300.
    Località delle riprese
    Presentazione del Canto: Piazza Nuova di Bagnacavallo (Provincia di Ravenna)
    Lettura del Canto: Centrale Montemartini - ACEA (Roma)
    Regia: Rubino Rubini
    #VittorioGassman #Inferno #Canto32

Комментарии • 4

  • @orizzonte86
    @orizzonte86 3 года назад +4

    Il più grande perfezionista fra i grandi attori del cinema italiano, dal dopo guerra ad oggi. Una potenza fra le potenze nella costellazione più importante del firmamento del cinema mondiale. Un Maestro assoluto e purtroppo poco ricordato in questi giorni dove la mediocrità attoriale è la costante nel cinema italiano. Una leggenda

    • @lagranjadeflix2543
      @lagranjadeflix2543 3 года назад +1

      La gente preferisce l’osceno Benigni al Grande Maestro. Come siamo finiti da Gassman a Barbara d’Urso?

  • @francescocendron
    @francescocendron 2 года назад +1

    Complimenti al regista

  • @abdel5505
    @abdel5505 2 года назад

    S’io avessi le rime aspre e chiocce,
    come si converrebbe al tristo buco
    sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, 3
    io premerei di mio concetto il suco
    più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
    non sanza tema a dicer mi conduco; 6
    ché non è impresa da pigliare a gabbo
    discriver fondo a tutto l’universo,
    né da lingua che chiami mamma o babbo. 9
    Ma quelle donne aiutino il mio verso
    ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
    sì che dal fatto il dir non sia diverso. 12
    Oh sovra tutte mal creata plebe
    che stai nel loco onde parlare è duro,
    mei foste state qui pecore o zebe! 15
    Come noi fummo giù nel pozzo scuro
    sotto i piè del gigante assai più bassi,
    e io mirava ancora a l’alto muro, 18
    dicere udi’mi: «Guarda come passi:
    va sì, che tu non calchi con le piante
    le teste de’ fratei miseri lassi». 21
    Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
    e sotto i piedi un lago che per gelo
    avea di vetro e non d’acqua sembiante. 24
    Non fece al corso suo sì grosso velo
    di verno la Danòia in Osterlicchi,
    né Tanai là sotto ’l freddo cielo, 27
    com’era quivi; che se Tambernicchi
    vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
    non avria pur da l’orlo fatto cricchi. 30
    E come a gracidar si sta la rana
    col muso fuor de l’acqua, quando sogna
    di spigolar sovente la villana; 33
    livide, insin là dove appar vergogna
    eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
    mettendo i denti in nota di cicogna. 36
    Ognuna in giù tenea volta la faccia;
    da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
    tra lor testimonianza si procaccia. 39
    Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
    volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
    che ’l pel del capo avieno insieme misto. 42
    «Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
    diss’io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
    e poi ch’ebber li visi a me eretti, 45
    li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
    gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
    le lagrime tra essi e riserrolli. 48
    Con legno legno spranga mai non cinse
    forte così; ond’ei come due becchi
    cozzaro insieme, tanta ira li vinse. 51
    E un ch’avea perduti ambo li orecchi
    per la freddura, pur col viso in giùe,
    disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? 54
    Se vuoi saper chi son cotesti due,
    la valle onde Bisenzo si dichina
    del padre loro Alberto e di lor fue. 57
    D’un corpo usciro; e tutta la Caina
    potrai cercare, e non troverai ombra
    degna più d’esser fitta in gelatina; 60
    non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
    con esso un colpo per la man d’Artù;
    non Focaccia; non questi che m’ingombra 63
    col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
    e fu nomato Sassol Mascheroni;
    se tosco se’, ben sai omai chi fu. 66
    E perché non mi metti in più sermoni,
    sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
    e aspetto Carlin che mi scagioni». 69
    Poscia vid’io mille visi cagnazzi
    fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
    e verrà sempre, de’ gelati guazzi. 72
    E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
    al quale ogne gravezza si rauna,
    e io tremava ne l’etterno rezzo; 75
    se voler fu o destino o fortuna,
    non so; ma, passeggiando tra le teste,
    forte percossi ’l piè nel viso ad una. 78
    Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
    se tu non vieni a crescer la vendetta
    di Montaperti, perché mi moleste?». 81
    E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
    si ch’io esca d’un dubbio per costui;
    poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». 84
    Lo duca stette, e io dissi a colui
    che bestemmiava duramente ancora:
    «Qual se’ tu che così rampogni altrui?». 87
    «Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
    percotendo», rispuose, «altrui le gote,
    sì che, se fossi vivo, troppo fora?». 90
    «Vivo son io, e caro esser ti puote»,
    fu mia risposta, «se dimandi fama,
    ch’io metta il nome tuo tra l’altre note». 93
    Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
    Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
    ché mal sai lusingar per questa lama!». 96
    Allor lo presi per la cuticagna,
    e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
    o che capel qui sù non ti rimagna». 99
    Ond’elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
    né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
    se mille fiate in sul capo mi tomi». 102
    Io avea già i capelli in mano avvolti,
    e tratto glien’avea più d’una ciocca,
    latrando lui con li occhi in giù raccolti, 105
    quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
    non ti basta sonar con le mascelle,
    se tu non latri? qual diavol ti tocca?». 108
    «Omai», diss’io, «non vo’ che più favelle,
    malvagio traditor; ch’a la tua onta
    io porterò di te vere novelle». 111
    «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
    ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
    di quel ch’ebbe or così la lingua pronta. 114
    El piange qui l’argento de’ Franceschi:
    "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
    là dove i peccatori stanno freschi". 117
    Se fossi domandato "Altri chi v’era?",
    tu hai dallato quel di Beccheria
    di cui segò Fiorenza la gorgiera. 120
    Gianni de’ Soldanier credo che sia
    più là con Ganellone e Tebaldello,
    ch’aprì Faenza quando si dormia». 123
    Noi eravam partiti già da ello,
    ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
    sì che l’un capo a l’altro era cappello; 126
    e come ’l pan per fame si manduca,
    così ’l sovran li denti a l’altro pose
    là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca: 129
    non altrimenti Tideo si rose
    le tempie a Menalippo per disdegno,
    che quei faceva il teschio e l’altre cose. 132
    «O tu che mostri per sì bestial segno
    odio sovra colui che tu ti mangi,
    dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno, 135
    che se tu a ragion di lui ti piangi,
    sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
    nel mondo suso ancora io te ne cangi,
    se quella con ch’io parlo non si secca».