Benedetto XVI parla di Mosè, del vitello d'oro e della tentazione di un Dio manovrabile

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  • Опубликовано: 9 июн 2016
  • Il 1° giugno 2011, in udienza generale, Benedetto XVI tenne una delle sue memorabili catechesi quanto mai attuale. Bellissima la descrizione di Mosè come uomo di preghiera e degna di nota la spiegazione dell'episodio del vitello d'oro e della tentazione, sempre presente, di costruire un Dio "su misura", senza troppi impegni e/o parole urticanti agli occhi del mondo.
    La catechesi integrale si trova qui: goo.gl/mwSZfS
    In particolare:
    "Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.
    Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza".

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